di Claudio Micalizio
Quando le vedi scorrere al tuo fianco, mentre percorri l’autostrada A21 o l’ex statale 10 che attraversano l’Oltrepò Pavese dal Piemonte sino al Piacentino, avverti una rassicurante sensazione di ordine e di serenità: la pianura e poi, là in fondo, le colline verdi, con i campi ben delineati dai colori delle stagioni o i vigneti che si alternano con precisione geometrica, sono un impareggiabile spettacolo per gli occhi e per l’anima. Comprendi così, per quale motivo, questo territorio sia ricco di bellezza ma anche di tante cose buone.
Quando poi t’inerpichi su per le vallate, o ti addentri tra i filari alle prese con il rito autunnale della vendemmia, scopri quanto questa terra custodisca gelosamente storie e tradizioni che contribuiscono a farne un luogo fuori dall’ordinario. Se ci si spinge fino a Canneto Pavese, località a cavallo delle valli Versa e Scuropasso che fino a qualche anno fa registrava il rapporto fra superficie vitata e superficie totale più alto d’Italia, si scopre una famiglia che interpreta l’attività quasi come una missione. Sia chiaro, fare agricoltura oggi – e ancora di più nella punta più a sud della Lombardia – richiede già virtù che vanno oltre la passione o il senso del dovere; ma nel caso di Andrea Picchioni, titolare dell’omonima azienda agricola, c’è ancora qualcosa di più romantico.
Quando incontriamo Andrea Picchioni, l’artefice di questa rinascita alla frazione Campo Noce di Canneto Pavese, la vendemmia è appena iniziata ma noi non resistiamo alla tentazione della domanda: che annata sarà?
«Sono al secondo giorno di raccolta e al momento non sono in grado di risponderle: il percorso è ancora lungo…».
C’è però grande fermento, anche perché la raccolta qui richiede attenzione e perizia. Voi avete scelto di recuperare terreni abbandonati e impervi: ma quanto è più complicato fare agricoltura in questi contesti?
«In realtà non è più complicato, sicuramente è più faticoso lavorare in questi luoghi perché significa tornare a fare molte attività in modo manuale, come si facevano una volta. Io dico spesso che qui portiamo avanti un’agricoltura un po’ estrema perché le pendenze sono fortissime e noi abbiamo deciso di riportare l’uomo in vigna, e lasciare fuori le macchine, nel più rigido rispetto dell’ambiente. La raccolta dei grappoli, per esempio, qui si fa uno per uno, a mano; anche la concimazione viene fatta utilizzando il letame. È un modo di lavorare più genuino e più faticoso ma è necessario per salvaguardare la terra: è qualcosa che va oltre l’etichetta di biologico, è un vero e proprio approccio alla natura».
Argomenti che oggi sono diffusi ma che lei ha portato avanti da subito insieme alla riscoperta degli antichi terreni…
«All’epoca fu una scelta un po’ controcorrente, proprio come quella di fare l’agricoltore. Io tra l’altro avevo soltanto 21 anni: oggi è di moda produrre vini, all’epoca lo era molto meno anche perché il settore era appena uscito dallo scandalo del metanolo che aveva, di fatto, distrutto l’immagine della viticoltura italiana. E in quel periodo ti ritrovavi davanti a un bivio: se percorrere la via del vino di massa o puntare su vino di nicchia e di qualità per un target di pubblico più esperto, per quelli cioè che bevono anche il pensiero e tutto il ragionamento che ruota attorno a un calice. Io arrivai qui a fine anni ’80: la mia famiglia era originaria di Stradella, mentre qui viveva la nonna paterna, che però anche lei non era nativa di Canneto Pavese. E ricordo ancora che quando chiedevo in paese perché questi terreni non fossero coltivati, alcuni anziani mi rispondevano che qui non era mai nato nulla».
Che vini producete?
«Quasi esclusivamente vini rossi, fermi, di pronta beva o di lungo invecchiamento. Tra i vini giovani, l’unico bianco è il nostro Soleluna. Poi abbiamo il Bonarda Ipazia, che è un vino rosso vivace da uva croatina, il Buttafuoco Solinghino – un vino rosso da uve croatina, barbera e poi la “nostra” ughetta di Solinga – e ancora il Sangue di Giuda Fior del Vento, che è un vino rosso da uve croatina, barbera e uva rara. Tra le riserve abbiamo l’Arfena, che è un vino rosso da uve pinot nero, il Rosso d’Asia o il Buttafuoco Bricco Riva Bianca, che è un vino rosso da uve croatina, barbera e ancora lughetta di Solinga. Concludono la nostra vetrina il Da Cima a Fondo, che è un vino rosso rifermentato in bottiglia, e nel metodo classico il Profilo Rosé Pas Dosé, Metodo Classico rosé da uve pinot nero».
«Anche il rispetto dell’ambiente oggi è un tema molto inflazionato ma per un viticoltore credo sia da sempre doveroso tutelare la terra: è un po’ come chiedere a un automobilista perché bisogna evitare di investire i pedoni. Sappiamo che la terra è una sola e non possiamo essere egoisti, dobbiamo fare tutto il possibile per non alterare la natura e lasciarla in buono stato a chi ci succederà. La scelta di recuperare questi antichi terreni, che hanno specifiche caratteristiche organolettiche, il tipo di vitigni e per esempio il soleggiamento hanno contribuito a creare l’identità di alcuni dei nostri vini, ne abbiamo alcuni che durano 30 anni e anche questa è una peculiarità che è racchiusa nella capacità produttiva del territorio. Sinora abbiamo parlato prevalentemente dell’attività in campo ma ci mettiamo passione e amore anche in cantina: usiamo soltanto botti in rovere di piccole dimensioni e a tre».
Questo vostro amore per l’attività vinicola vi è valso anche importanti riconoscimenti, in Italia e all’estero. Ma quanto è difficile oggi fare agricoltura in provincia di Pavia?
«Quando una cosa piace non è difficile e forse il nostro territorio, oggi, è l’ideale per un giovane che voglia iniziare l’attività agricola. È molto più facile partire da zero qui che non in tante zone blasonate dove i prezzi dei terreni sono irraggiungibili. Diciamo che in Oltrepò per fortuna – e purtroppo – si può ancora iniziare a fare questo lavoro se non si hanno già dei terreni: è un po’ come la differenza tra comprarsi casa a Canneto o a Portofino. Poi certo ci sono gli incerti del mestiere, i fattori che incidono a livello economico, la burocrazia e le varie norme: per fortuna Confagricoltura Pavia, l’associazione cui siano affiliati, è molto attiva e dinamica, ci aiuta a districarci tra adempimenti e normative e ci segnala eventuali opportunità; questo consente a noi di dedicarci all’attività dei campi e al prodotto».
Secondo lei che cosa manca all’Oltrepò per ottenere quel riconoscimento che la nostra tradizione vinicola merita? È una delle zone con la più alta estensione di vitigni e ancora, però, non abbiamo quel peso e quell’exploit che altrove c’è stato…
«Essere una grande zona ed essere una grossa zona sono due concetti diversi. Bisognerebbe riflettere su questa differenza: in passato, per anni, si sono piantati vigneti al posto di seminativi perché c’era un mercato che chiedeva vino, ma spesso noi eravamo un grande serbatoio per cantine piemontesi o che arrivano da qualunque altra parte d’Italia. Purtroppo manca un progetto che dia identità al nostro territorio e alla produzione: l’unico progetto, a mio parere, risale ormai a vent’anni fa, fu il Cruasé. Parliamo di un vino che rappresentava forse il 5% della produzione complessiva. E poi non c’è mai stato un progetto di comunicazione che spiegasse la nostra tradizione, la qualità del vino che tanti produttori realizzano con passione e rispetto della tradizione: purtroppo oggi c’è chi dice che si va in Oltrepò perché si spende poco, ma questo giudizio non riguarda soltanto la produzione vinicola, vale anche per altri ambiti, compresa la ristorazione. Ecco noi dobbiamo iniziare a comunicare il nostro territorio e i nostri vini dando il giusto valore».