In un inverno di due secoli fa, il 1° dicembre 1808, un legno partito da Milano varcava il Ticino e faceva scendere, nella città nebbiosa, un uomo di trent’anni, due ferite di guerra, una fama crescente di poeta, e un desiderio — struggente e ambizioso — di trovare finalmente quiete. Era Ugo Foscolo.
A Pavia, gli avevano assegnato la cattedra di Eloquenza, quella che fu di Vincenzo Monti. Lui stesso l’aveva chiesta mesi prima, quando il precedente titolare era in fin di vita. «Pendo a diventar professore», scriveva. Voleva smettere l’uniforme, le illusioni militari, i ricami della divisa. Cercava “più tranquillità, vita meno errante, e studi più liberi”.
Fu mandato a vivere in borgo Oleario, oggi via Foscolo. Allora il borgo era davvero un margine urbano: orti, silenzi, lune, magnolie d’estate e, in quel dicembre, una neve spessa undici once — come avevano misurato con precisione gli universitari paviesi. Una via fuori mano, «tra le case probe, solidali», come scriverà qualcuno molti anni dopo, dove la vita scorreva «come sopra una nave, in silenzio».
Lì, nella casa Bonfico, che ancora oggi si può riconoscere, entrava ogni giorno un uomo tormentato, brillante, isolato. Si scaldava davanti al camino bruciando un carro di legna a settimana, ma le spalle gli restavano gelate. «Freddo da bruciare un carro di legna… Sospiro un Franklin», scriveva all’amico Brunetti. E poi, nel silenzio ovattato della neve, leggeva, scriveva, pensava. Guardava dalle finestre i giardini innevati, le nuvole che galoppavano, le stelle che crollavano.
Pavia gli sembrava, a tratti, una prigione. «Sono andato ad apparecchiarmi la prigione, e ad onorarla», confidava in una lettera. L’Università gli metteva ansia — mille occhi, mille giudizi. Eppure in quelle stesse lettere, che mandava con febbrile costanza agli amici — Pindemonte, Monti, Giovio — Pavia diventava anche un rifugio, un luogo dove tentare una metamorfosi. «Ho varcato i trent’anni», scriveva. «Bisogna ormai ch’io pensi più alla quiete e alle Lettere».
Non fu una trasformazione pacifica. Il suo carattere, brusco e solitario, poco si conciliava con l’”Atene lombarda”, con i colleghi, con gli studenti. Ma nella casa Bonfico, tra affreschi mitologici e muri odorosi di tempo, Ugo Foscolo visse uno dei suoi momenti più intensi e raccolti. Aveva accanto il matematico Montevecchio — “la ditta Foscolo-Montevecchio”, scherzava — e intanto tentava di organizzare lenzuola, stoviglie, pentole, come ogni giovane che va a vivere da solo per la prima volta.
Fu un’esperienza breve ma densa. Un periodo che oggi possiamo quasi immaginare, affacciandoci su quelle stesse finestre, camminando in quella via mite che profuma ancora di magnolia, lasciandoci sfiorare dalla stessa nebbia che lui descriveva come «tenebrosa, che si rovescia sull’animo mio».
E ancora oggi, a chi passa per via Foscolo, si potrebbe sussurrare, come lui scrisse all’amico Brunetti:
«A Pavia, chiedi la casa Bonfico, borgo Oleario…»