di Raffaella Costa
Di fronte a un mondo ferito, quale può essere il ruolo dell’arte? Può davvero curare, generare pensiero, aprire nuove relazioni?
Sono queste le domande al centro della mostra La cura dell’Uomo. La cura di tutti gli altri, ospitata negli spazi del Museo Diocesano di Pavia. Un’esposizione intensa e necessaria, curata da Filippo Moretti e Giosuè Allegrini, che attraverso 27 opere suddivise in 5 sezioni invita i visitatori a compiere un viaggio nell’umano, nella sua vulnerabilità e nel suo potenziale di rigenerazione.
L’arte qui non è puro ornamento, ma gesto etico, occasione di incontro, strumento di consapevolezza. Dalla cura del corpo alla cura del mondo, passando per l’interiorità, la relazione con l’altro, l’estetica della trasformazione: il percorso espositivo si configura come una mappa emozionale capace di parlare a tutti, con un linguaggio accessibile e profondamente evocativo.
Ne parliamo con Filippo Moretti, curatore della mostra e docente universitario, che ci aiuta a leggere il senso più profondo di questo progetto.

Moretti ha curato la mostra insieme a G. Allegrini
Professore, la mostra si apre con una parola importante: cura. Perché proprio questa?
«Perché la cura è ciò che ci tiene umani. Non è solo prendersi carico di una fragilità fisica o psicologica, ma è un atto relazionale, è scegliere di esserci per sé stessi e per gli altri. L’arte, da questo punto di vista, è lo strumento più potente che abbiamo: scuote, coinvolge, ci fa pensare. E condividere pensiero è il primo passo per costruire una società migliore».
Il titolo però aggiunge: “La cura di tutti gli altri”…
«Sì, perché non esiste vera cura dell’uomo se non si apre all’altro. Il benessere individuale è sempre intrecciato a quello collettivo. E in questo senso l’arte è profondamente politica, ma nel senso più alto e originario del termine: è un linguaggio che ci riguarda tutti, che ci espone, che ci mette in relazione».
Qual è il messaggio che sperate arrivi al pubblico?
«Che la fragilità non è un difetto da nascondere, ma una possibilità da abitare. L’arte può farci entrare in quella fragilità, mostrarla, renderla comunicabile. In fondo, il vero gesto politico oggi è imparare a prendersi cura: del corpo, dell’interiorità, delle relazioni, del mondo. Questa mostra vuole essere una traccia in quella direzione».
E il rischio dell’isolamento?
«È reale. Ma se la sofferenza non trova ascolto, si moltiplica. Per questo parliamo anche di arte come terapia, come comunità che si forma attorno a un’opera, a un gesto creativo, a una storia. L’arte può creare ponti dove ci sono fratture».
In questo percorso qual è il ruolo del sapere?
«Fondamentale. Ma non un sapere chiuso, elitario. Il contagio è reciproco e infinito. Lavorare su temi attuali che ci toccano tutti – estetica, arte, cura – significa usare i saperi come strumenti per rimanere fedeli alla vita, senza isolarsi. Questo è il senso profondo della mostra».
Ma come ci si prende cura, concretamente? A questo interrogativo la mostra risponde attraverso cinque sezioni e ventisette opere, che indagano: la cura del corpo, la cura dell’interiorità, la cura degli altri, la politica, ovvero l’arte di prendersi cura del mondo e l’estetica, intesa come cura integrale dell’umano Un corpo ferito va curato. È da questa constatazione che prende avvio il percorso della mostra, con l’opera d’apertura firmata da Mino Ceretti, “Corpo anatomia”: una figura femminile squarciata. L’uomo non può essere compreso solo nella sua esteriorità. Per guardarlo davvero, è necessario “esploderlo”, aprirlo, affrontarlo. Solo così si può intravedere l’intimo legame tra corpo e sofferenza, tra visibile e invisibile.
Il viaggio prosegue con una sezione dedicata all’arte come terapia. Qui, le protagoniste sono le teste in 3D dei piccoli pazienti del reparto di oncoematologia pediatrica del Policlinico San Matteo, realizzate nell’ambito di un progetto curato da Andrea Pietrabissa. Sono la dimostrazione che la cura del corpo non può prescindere dalla cura emotiva. Perché una malattia vissuta nella solitudine rischia di trasformarsi in una doppia ferita: dolore che genera altra sofferenza. Attraverso l’arte, i bambini imparano a conoscersi, a percepirsi come parte di una comunità. Non sono più soli. L’opera diventa strumento di consapevolezza, relazione, resilienza. A chiudere la prima sezione è un lavoro inedito di Mimmo Paladino, “I bambini meravigliosi”: una grande testa colorata, piena di fiori, che sembra esplodere di vita. Un’opera che, pur nella sua fragilità, suggerisce la possibilità di una salvezza anche senza guarigione. Perché la cura non è solo guarire, ma anche attraversare il dolore con speranza e bellezza.

G. De Chirico, E ci fu una gran guerra in cielo
Il secondo percorso, intitolato La cura dell’interiorità, si muove tra buio e luce, dolore e possibilità, smarrimento e rinascita. È una sezione che ci interroga profondamente, dove le opere diventano specchi del nostro io più nascosto. Ad aprirla sono le immagini di Misson: otto scatti che ritraggono una giovane donna assassinata. Una testimonianza cruda del buio dell’animo umano, del punto in cui la violenza prende il sopravvento sull’umanità. A queste fotografie fa da contrappunto una litografia di Giorgio De Chirico, in cui si materializza la lotta eterna tra il bene e il male. Una lotta che si gioca dentro ciascuno di noi, ma che può essere vinta se scegliamo di volgere lo sguardo verso la cura, verso ciò che genera vita: la generosità, il dono, l’essere madre, l’essere figlio.

Salvador Dalì, Black Madonna
Un invito che si fa ancora più potente nell’opera di Salvador Dalí: una litografia che ritrae Maria con in grembo il figlio morto. Eppure, in quella figura non c’è disperazione: c’è luce. Non una fine, ma un passaggio. Un’immagine che ci ricorda come amore, amicizia, compassione siano le vere forze capaci di salvare il mondo.
Un messaggio che risuona anche nelle opere di Bruno Ceccobelli, Costantino Ruggeri e Matteo Domenico Borioli. Artisti che, ciascuno con il proprio linguaggio, ci parlano di cura dell’anima, di quella dimensione invisibile che tiene insieme la fragilità e la speranza, l’umano e il sacro.

Bansky, CND soldiers (alias Peace Soldier)
Curati e rigenerati, ci chiediamo: ci basta? O abbiamo bisogno di qualcosa di più grande? È questa la domanda che introduce il quarto percorso della mostra, La politica o l’arte della cura del mondo. Qui la riflessione si allarga, si fa collettiva, sociale, globale. Le opere di Gasparini, Albrecht, Garau, Dellatorre, Malipiero, GAS, Banksy e Ruggero Maggi ci portano nel cuore delle tensioni contemporanee. Chi è l’uomo che parla alle folle? Un messaggero di bene o un manipolatore in cerca di consenso? E ancora: quale strada dobbiamo percorrere per costruire la pace, per creare dialogo tra i popoli, per custodire il pianeta? Interrogativi centrali per la nostra epoca, domande che l’arte non pretende di risolvere, ma ci aiuta ad abitare con consapevolezza.
E proprio queste domande ci accompagnano verso la sezione finale, la quinta, forse la più intima e simbolica: L’estetica o la cura integrale dell’umano. Qui l’arte diventa specchio, lente, compagna di viaggio. Uno sguardo che trasforma chi guarda e chi è guardato. L’arte, ci dice la mostra, è lo strumento che ci aiuta a riconoscerci, a cambiare prospettiva, a riscoprire il legame tra noi e gli altri.
Un messaggio forte e silenzioso, affidato alle opere di Toia, Guidi, Ferrari, Guttuso e Conte, e ospitato in un luogo straordinario: l’Ottagono bramantesco del Museo Diocesano di Pavia. Uno spazio solitamente chiuso al pubblico, che per l’occasione si apre come un cuore nascosto. È l’unica parte rimasta intatta dell’antica sacrestia, progettata da Bramante: un’opera d’arte che accoglie altra arte. Un sigillo perfetto per un viaggio che è estetico, etico e umano.
La Cura dell’Uomo
10 – 25 maggio 2025
Museo Diocesano di Pavia
A cura di: Filippo Moretti e Giosuè Allegrini
Comitato scientifico: Giampaolo Azzoni, Matteo Domenico Borioli, Andrea Pietrabissa, Carlo Poggi, Marco Romano
Orari di apertura
Sabato: 14.30 – 18.30
Domenica: 10.00-12.00, 14.30-18.30