Nel vasto panorama delle reliquie, non sono solo i santi a finire in teche e reliquiari. Mentre la Chiesa conservava denti, unghie e capelli dei suoi beati, il mondo accademico non voleva essere da meno, collezionando i propri “santini” in formato anatomico. Una tradizione che ci racconta molto più della storia della scienza di quanto si potrebbe pensare.
Prendiamo il caso del professor Lazzaro Spallanzani: dopo una vita passata a studiare la biologia, ha fatto l’ultimo regalo alla scienza donandole proprio l’organo che l’ha tradito. La sua vescica cancerosa riposa oggi nel Museo per la Storia dell’Università di Pavia, mentre il resto del corpo giace nella più tradizionale sistemazione cimiteriale a Scandiano, sua terra natale. Si potrebbe dire che ha portato il concetto di “dedicare la vita alla scienza” a un livello decisamente letterale. Una donazione post-mortem che rappresenta perfettamente lo spirito illuminista del tempo: il corpo come ultimo strumento di conoscenza.
Ancora più intrigante è la storia della testa di Antonio Scarpa, che fa bella mostra di sé nella sala museale a lui intitolata dell’ateneo pavese. Sul perché sia finita lì, le versioni si dividono: c’è chi parla di venerazione accademica (una sorta di “santo patrono” della medicina), e chi invece sussurra di una vendetta postuma dei suoi collaboratori che, evidentemente, non avevano proprio digerito il suo caratterino. Una cosa è certa: il professor Scarpa sta ancora dando del filo da torcere agli storici, anche se questa volta solo metaforicamente.
Ma questi non sono casi isolati. La storia della medicina è piena di simili “reliquie laiche”. Pensate al cervello di Einstein, conservato in formalina e studiato per decenni nella speranza di trovare il segreto del genio. O alle collezioni anatomiche delle antiche università europee, dove parti del corpo di illustri professori si mescolano a preparati didattici in un macabro ma affascinante museo delle meraviglie scientifiche.
Queste pratiche ci raccontano di un’epoca in cui il confine tra scienza e ritualità era più sfumato di quanto vorremmo ammettere. I grandi scienziati erano venerati quasi come santi, e le loro spoglie trattate con un misto di reverenza scientifica e quasi religiosa. D’altronde, in un’epoca in cui la dissezione era ancora vista con sospetto dalla Chiesa, cosa c’era di più sovversivo che donare il proprio corpo alla scienza?
La differenza fondamentale? Mentre i santi vengono esposti per devozione, questi scienziati continuano, in un certo senso, a servire la ricerca – anche se probabilmente non esattamente nel modo che avevano immaginato. Le loro reliquie sono testimonianza di un’epoca in cui la scienza stava costruendo i propri simboli e i propri rituali, sostituendo gradualmente quelli religiosi con altri non meno carichi di significato.
Oggi questi reperti ci appaiono come curiosità macabre, ma sono in realtà potenti simboli di un passaggio epocale: quello da una società dominata dal pensiero religioso a una in cui la scienza iniziava a reclamare il proprio spazio. E forse, in fondo, conservare la testa di un anatomista non è poi così diverso dal conservare il dito di un santo: entrambi i gesti nascono dal desiderio molto umano di mantenere un legame tangibile con chi ha cambiato il nostro modo di vedere il mondo.
Come dice il vecchio adagio, la scienza non è immune dalla natura umana dei suoi praticanti. E cosa c’è di più umano del desiderio di conservare un pezzo di chi ci ha preceduto? Anche se quel pezzo è una vescica in formalina.